di Giovanni Staffilano*
Dalla periferia di un bosco abruzzese ai dossier dimenticati della diplomazia, fino allo sport che non raccontiamo: un Paese che interviene dove è semplice e tace dove sarebbe necessario.
Nel silenzio del bosco di Palombara l’intervento è arrivato rapido, lineare, amministrativamente impeccabile. Sopralluoghi, verbali, irregolarità da sanare, fino all’allontanamento dei minori e all’affidamento ai servizi sociali. Una procedura “standard”, come la definiscono gli operatori, applicata con un’efficienza quasi chirurgica. Eppure, basta allargare lo sguardo per accorgersi della stortura. Secondo report periodici di associazioni che si occupano di tutela dei minori e disagio sociale, in Italia esistono comunità in cui violenza domestica, marginalità cronica e dispersione scolastica non sono eccezioni, ma condizioni strutturali. In quei territori, però, gli interventi arrivano con ritardo, con difficoltà, a volte non arrivano affatto. È il paradosso di un Paese che applica con rigore il proprio potere dove il contesto è semplice, ma fatica a intervenire dove la complessità richiederebbe visione politica, continuità e investimenti veri.
La stessa dinamica si ripropone, identica, sul piano internazionale. Nei vertici diplomatici si pronunciano parole come “dialogo” e “cessate il fuoco”, mentre parallelamente – lo indicano analisi indipendenti e stime militari – la spesa per armamenti continua a crescere. Intanto il racconto pubblico si concentra quasi esclusivamente su due fronti: Ucraina e Gaza. Ogni giorno nuovi aggiornamenti, nuove narrazioni, nuove contrapposizioni. Ma altre crisi, come quella del Sudan, vengono inghiottite dal silenzio. Migliaia di vittime, intere aree destabilizzate, appelli delle organizzazioni umanitarie che faticano persino a trovare spazio nei media occidentali. Non è mancanza di informazioni: è selezione. Una selezione che decide quali tragedie meritano visibilità e quali possono essere ignorate.
Nemmeno il mondo dello sport sfugge a questa logica. Mentre la Nazionale di calcio attraversa uno dei periodi più bassi della sua storia recente – lo certificano risultati, ranking e cicli tecnici – il calcio continua a monopolizzare le prime pagine. Al contrario, uno sport in cui l’Italia ha risultati reali, evidenti, documentabili, come il tennis, scivola in fondo alle scalette, salvo poi criticare il più forte giocatore italiano, reo di non frequentare i salotti televisivi di Bruno Vespa. È una fotografia precisa delle nostre abitudini culturali: ciò che “si è sempre raccontato” prevale su ciò che meriterebbe davvero di essere raccontato.
Tre scenari diversi – famiglia, geopolitica, sport – che però rivelano un’unica struttura: l’Italia tende a intervenire dove può, non dove servirebbe; a guardare ciò che conosce, non ciò che pesa; a dare centralità al rito e marginalità alla realtà.
Resta una domanda, semplice e inquietante: che cosa sceglie davvero di vedere il nostro Paese?
Perché da questa risposta dipende non soltanto la percezione delle emergenze, ma l’idea stessa di giustizia pubblica che trasmettiamo alle nuove generazioni. E così il viaggio si chiude com’era iniziato: con l’immagine di un mondo al rovescio. Un Paese che esegue alla perfezione un intervento nel silenzio di un bosco, e che allo stesso tempo fatica a guardare, affrontare e raccontare ciò che davvero richiederebbe coraggio, continuità e responsabilità collettiva. Un’Italia che osserva molto, ma vede ancora troppo poco.
*Cardiologo e infettivologo
