Il ritratto di Marco il Tedesco è stato tratto da Facebook
di Marco Camplone
Non si voleva bene, ma era impossibile non volergli bene. Marco, per meglio dire Marco il Tedesco – così lo chiamavamo e così gli piaceva essere chiamato – è morto. Si è chiusa a 69 anni la vita dannata di uno di noi, di quella Pescara oramai al crepuscolo. Bello, generoso, un gran fisico, sorridente, vero, carismatico. Eppure fragile, perennemente oppresso dal demone dell’autodistruzione. Le droghe, la prigione, l’alcol. Gino Pilota, gran manager della Benetton, stravedeva per lui, tanto da prenderlo al lavoro con sé. Aveva tutte le carte in regola per sfondare, Marco. Tutte, tranne l’incapacità di quietarsi.
Ho appreso la brutta notizia da Facebook. Un post di Gianluca Vianale. “Ciao Marco, ti porterò semPRe con con me”. Ho capito subito ed è cominciato il magone che ti assale quando perdi qualcosa che ti è caro. Ma cosa ho perso? Non lo vedevo da anni e nell’ultima occasione, mi sembra proprio che sia stata l’ultima, mi aveva colpito la sua condizione. Camminava male per un problema all’anca, ma sorrideva. Ricordo il nostro abbraccio. Eravamo in ottimi rapporti e non l’ho mai nascosto. Né ho mai nascosto l’affetto per Mimmo, Bubu’ e Zazzetta, altri ragazzi dannati, per me sempre e solo dei ragazzi. Eravamo, siamo pezzi della stessa Pescara. Ecco, ho perso un pezzo della mia Pescara, dove in un crogiuolo difficile da raccontare e forse impossibile da capire c’erano, tutti mischiati, figli di papà e figli di puttana, uomini veri e mezzi uomini. Se Marco fosse stato un figlio di puttana e un mezzo uomo, avrebbe vissuto meglio e, magari, di più.
Ci conoscemmo, io e il Tedesco, a metà degli anni ’90. Lui era da poco in libertà e aveva un’aurea da duro: era stato in prigione, ma non aveva tradito gli amici, raccontava la leggenda. Omertà e non infamia. Nel mondo di Marco, parole scritte con il fuoco. Non ho mai saputo i dettagli di quella storiaccia, ma non hanno importanza. Ci incontrammo in una sala del Carlton, hotel sul lungomare ora sostituito da un palazzone, al termine di una conferenza del Pescara Calcio. Era una fase opaca, per meglio dire sporca, mai del tutto raccontata, della storia del Delfino. Marco aveva in mano una copia del giornale per il quale scrivevo, indossava un cappotto grigio scuro. Era elegante senza doversi sforzare per esserlo. Mi chiamò. “Sai chi sono?”. “Sì, lo so”. “Sai perché sono qui?” “Posso immaginarlo”. “E sai perché ti sei salvato?”. “No”. “Ti sei salvato perché mi è piaciuta questa frase”. Avevo ironizzato sulla gestione delle sostituzioni di un allenatore che tutto mi pareva tranne che un allenatore. Prendemmo il caffè. Parlammo tanto. Scoprimmo amici in comune, la passione per la squadra della nostra città, che esprimevano in maniera diversa. Lui era PR, quelle due lettere maiuscole nel post di Vianale: Pescara Rangers, la curva Nord del tifo pescarese. Io vaticinavo un grande settore giovanile, modello Atalanta. Lui parlava, entusiasta, di Galeone e Pagano, Junior e Sliskovic, Zucchini e Nobili. Io avevo altri pallini: un assetto societario forte e stabile, un centro sportivo degno di questo nome. Io gli davo del sognatore e lui mi sfotteva dicendo che ero un costruttore. Per un lungo periodo, ci incrociammo spesso perché i Rangers avevano aperto una sede dalle mie parti. Marco non era fatto per il mondo piccolo borghese. Il lavoro, il tran tran quotidiano, il mutuo e le rate della macchina erano concetti avulsi per un ragazzone che aveva assoluto bisogno di sentire il vento fresco in faccia. Maledette droghe. Maledetto alcol.
Tornando da una trasferta a Benevento, campo neutro di una partita contro il Foggia, trovai nei miei articoli una sua fotografia nella quale era circondato dalle forze dell’ordine. A torso nudo. Aveva fatto invasione di campo. Il coraggio non gli mancava. Era un duro. Gli chiesi, in uno dei nostri incontri, di cambiare, di pensare al suo futuro e a quello dei suoi cari. Lo chiesi anche a Mimmo, in un altro momento. Sprecai il fiato in entrambe le occasioni. Si può chiedere a un sognatore di diventare un costruttore? L’ultima volta che l’ho sentito, al telefono di un amico comune incontrato per caso in centro, il Tedesco mi ha rimproverato perché non andavo più allo stadio. Adesso, caro Marco, ho un motivo in più per non andarci.