La violenza sulle donne, argomento di drammatica attualità, è legata a doppia mandata alla frustrazione. Il romanziere Raffaele Morelli, specialista in medicina legale con alle spalle una lunga esperienza psicologica, sia teorica grazie agli studi di psicologia alla Sapienza, che pratica, attraverso la formazione psicoterapeutica, ci guida alla comprensione delle ragioni che sono alla base di alcuni avvenimenti. Morelli è in libreria con il romanzo Voglio tornare al topless bar (All Around editore, €15).
“Se intendo parlare di violenza sulle donne iniziando dalla frustrazione va da sé che i due concetti sono collegati. Prima di entrare nel tema, però credo sia necessario chiarire cosa si intende quando si parla di FRUSTRAZIONE. Il termine, secondo quanto scritto nel dizionario, significa, sostanzialmente due cose:
1) Sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano: provare un senso di frustrazione. (esempio: cerco in tutti i modi di ottenere un buon risultato scolastico ma, per una serie di ragioni, non ci riesco);
2) In psicologia, condizione di tensione psichica determinata da un mancato o ostacolato appagamento di un bisogno; può avere cause esterne (per es., un’educazione troppo autoritaria: ho quasi diciotto anni e voglio provare a guidare l’automobile ma mio padre mi impedisce in ogni modo anche il minimo tentativo), o interne (per es., presenza di due bisogni di uguale intensità ma di opposta direzione o comunque incompatibili: voglio con tutte le forze provare a dimagrire e, però, non riesco ad impedirmi di mangiare cibi che dovrei evitare). Con significato ancora più specifico, in psicanalisi: effetto della mancata soddisfazione di una pulsione. (esempio: sono follemente innamorato di una ragazza, ma lei non contraccambia il mio sentimento).
La frustrazione è, nella vita di tutti i giorni, un sentimento abbastanza comune. Un soggetto che ha molte incombenze da sbrigare, si reca presso un ufficio postale e trova una fila lunghissima. Teme di dover perdere l’intera mattinata per ritirare una raccomandata. La cosa gli impedisce di portare a termine gli altri impegni e si vede costretto a scegliere tra il fermarsi e fare la fila o andar via e non ritirare la raccomandata. Quale che sia la scelta subisce una frustrazione: o non completa tutto ciò che intendeva fare o non ritira la lettera che, magari, contiene qualcosa che gli interessa.
Sicuramente avrete assistito a scene, in casi come questo, in cui il nostro soggetto tenta imprese disperate e scorrette: cerca di bypassare la fila e guadagnare tempo a spese degli altri. Questo è un atteggiamento aggressivo. Vi sarà capitato di assistere a situazioni di tensione in cui qualcuno si accorge del tentativo e rimprovera il soggetto il quale, invece di scusarsi e riposizionarsi dove deve, contro aggredisce chi lo rimprovera, lo minaccia e porta fino in fondo il proposito di non rispettare la fila. Come definireste chi si comporta in questo modo? Io, usando un termine molto comune lo definirei un “viziato” un soggetto non abituato a vedersi negare qualcosa, non abituato a gestire le proprie frustrazioni. Non timoroso di diventare aggressivo negli atti ed anche nei confronti di chi lo rimprovera.
Il meccanismo che si mette in movimento nella testa del nostro individuo ha le medesime caratteristiche di quello che agisce nella testa degli stalkers. Cosa frena uno stalker dal trasformarsi in un assassino? La capacità di contestualizzare l’asocialità del suo
modo di agire. Chi non riesce in questa correzione del difetto diventa pericoloso.
Lasciando perdere le cause, quello che conta chiarire in questa sede è che la frustrazione è alla base di comportamenti aggressivi, antisociali, violenti, perpetrati dagli uomini contro le donne e non solo. Perché è proprio questo il problema di fondo: nel momento in cui un essere umano, nel nostro caso un uomo, non è allenato a gestire la frustrazione, il comportamento che si determina è di tipo aggressivo. Questa aggressività è in genere eteroagita, ma può essere autoagita e, come vediamo sempre più spesso, anche bilaterale, etero ed autoagita, cioè omicidio/suicidio, volendo il futuro suicida ricordare al mondo che la colpa di quanto accade non è sua nel momento in cui opera l’acting out, cioè, trasforma la rabbia per la frustrazione in azione aggressiva, ma del
contesto, cioè il mondo che lo circonda, che non fa nulla per impedire al soggetto di subire una frustrazione.
Prima di entrare nello specifico, vorrei sottolineare con la massima forza che il problema è tutto e soltanto in coloro che perpetrano violenza e non cambia la sostanza il sapere che detti comportamenti derivano da una situazione educativa in ambito famigliare o da altre Istituzioni che hanno agito, favorendo e non rendendo controllabili le “pulsioni” le quali, una volta radicate nell’animo non possono fare altro che determinare la reazione sopra descritta.
Quindi entrando più a fondo nel caso che ci riguarda, cioè la violenza sulle donne, immaginiamo una situazione tipo: una donna mette in discussione un rapporto affettivo nel quale, per motivi derivanti dalla violenza del partner che non è solo quella fisica, ma anche il tentativo di coartare il pensiero della vittima, non si trova più a proprio agio. L’uomo percepisce questa decisione come un affronto, come il mancato riconoscimento del suo valore, delle sue ragioni e del suo potere, che ritiene indiscutibile. Non riesce ad elaborare la frustrazione che gli deriva dall’affronto di una donna che decide di lasciarlo o, peggio, di sostituirlo con un altro.
La frustrazione non elaborata in modo funzionale, non accettata, si trasforma in ossessione, diventa un ostacolo insuperabile che produce forte disagio. Provoca delusione nei confronti della donna, sensazione di essere stato tradito, mancato riconoscimento del proprio valore, senso d’impotenza e fallimento. Queste dinamiche non dipendono dal comportamento della donna, ma dal vissuto dell’uomo che non riesce ad tollerare l’idea di essere meno forte della partner e di essere costretto ad accettare
una sua decisione senza poter imporre la propria. Mi sembra abbastanza evidente che questa reazione rimanda all’età infantile, nella quale i bambini, se chiedono qualcosa che gli viene negato, iniziano ad urlare, a piangere, perfino a picchiare i genitori.
Tralasciamo altre possibili reazioni alla frustrazione che elenco soltanto per dovere di cronaca. Isolamento: il bambino si chiude in sé e rifiuta la comunicazione, cercando di produrre nei genitori sofferenza derivante dalla perdita di affetto che cerca di dimostrare; ossessione: il bambino inizia a lamentarsi in maniera teatrale, si butta per terra, urla, strepita e non smette fino a quando i genitori non trovano un modo per distrarlo, lo costringono d’autorità a smettere, lo accontentano. Concentriamoci sull’aggressività: il bambino getta oggetti a terra, li lancia contro i genitori, li picchia, gli urla che non prova per loro nessun sentimento di affetto. Negli adolescenti può arrivare all’autolesionismo con l’intenzione di provocare senso di colpa nei genitori. A questo punto i casi si possono restringere a due più importanti: i genitori cedono: dimostrano al figlio che hanno paura delle sue reazioni, che non sono coinvolti davvero nella relazione genitoriale, che hanno cose più interessanti a cui dedicarsi invece di perdere tempo in quella relazione. Il risultato di questo comportamento è che il bambino comprende di essere in grado di batterli. Da quel momento in poi cercherà di ripetere il comportamento che ha avuto successo e si conferma nella pulsione di onnipotenza che i bambini hanno naturalmente. Nella seconda ipotesi i genitori non cedono, spiegano al bambino il motivo o i motivi che li spingono a rifiutare la richiesta e, aumentando il livello di autorità, lo aiutano ad accettare con le buone o meno, la decisione negativa. In sostanza costruiscono dei limiti nei quali il bambino deve imparare a gestire il proprio senso di onnipotenza e abituarsi ad accettare l’autorità degli altri.
La scuola è l’Istituzione primaria nella quale ci si abitua a vivere in una società multipla e
complessa nella quale l’”io” deve fare un passo indietro per sostituirsi con il “noi”.
È cronaca di ogni fine di anno scolastico il tentativo di mettere in discussione, da parte di alcuni genitori, le decisioni della scuola, adducendo a giustificazione la mancata comprensione da parte degli insegnanti delle caratteristiche, delle ragioni, dei bisogni del figlio. Spesso si arriva al ricorso amministrativo. Purtroppo, quasi sempre questa pratica termina con un ribaltamento invasivo e pernicioso delle decisioni del corpo docente, che viene in sostanza disconfermato. Perché questa pratica andrebbe abolita e perché, anche se fosse vero che è stata commessa un’ingiustizia (fatto abbastanza raro in realtà), è una scelta scellerata il ricorso ai giudici amministrativi per ribaltare il giudizio della scuola? La risposta è: la vita non è né giusta, né prevedibile, né logica e capiterà di certo a tutti, prima o poi, di incorrere in situazioni sgradite, incomprensibili, frustranti. Quelli che avranno imparato ad accettare la frustrazione riusciranno con minore o maggiore fatica ad andare oltre, a maturare una resilienza rispetto al dispiacere. Gli altri invece cercheranno vendetta e la responsabilità del comportamento aggressivo, antisociale, criminale ricade sulle spalle di coloro che avrebbero dovuto educarli alla vita e non lo hanno fatto, arrivando ad alterare le decisioni della scuola, che per definizione è il principale luogo complementare dell’educazione, pur di non assumersi la responsabilità di accettare i limiti dei propri figli e di esercitare una potestà genitoriale che richiede anche scelte impopolari.
Tornando alla violenza sulle donne, proviamo ad immaginare un bambino i cui genitori per debolezza di carattere, per disinteresse, per cattiva volontà, lo abbiano abituato a vincere ogni singolo capriccio prodotto nella vita infantile e adolescenziale. Si trasformerà in un adulto non abituato ad accettare un no. La sfortunata partner di un soggetto con queste caratteristiche deve avere l’intelligenza di comprendere il prima possibile che l’incapacità del compagno di accettare un no o un’idea contraria alla sua, non in linea con le sue richieste che presto diverranno pretese, la mette a rischio. Questo soggetto ha maturato la convinzione di essere invincibile, di non doversi piegare alla volontà degli altri, di avere tutti i diritti e di poter lasciare agli altri tutti i doveri. Questo soggetto è potenzialmente uno stalker e, forse, peggio, un assassino. Il modo migliore di liberarsi di un soggetto con queste caratteristiche non è quello di opporsi fieramente, ma, piuttosto, quello
di attivare comportamenti che lo spingano a mutare i suoi sentimenti e lascino a lui la scelta di uscire da quel rapporto. Le donne che hanno compreso la pericolosità del partner dovrebbero consultare un terapeuta e costruire insieme al professionista una strategia che non comprenda la contro aggressione nei confronti di un soggetto che non ha timore di spingere fino alle estreme conseguenze il proprio comportamento.
A riprova di quanto affermato cito il caso dei ragazzi affetti da autismo. Noi sappiamo che i bambini affetti da autismo sono particolarmente reattivi alla frustrazione. Eppure, questi bambini, trattati da personale specializzato e condizionati un poco alla volta ad accettare le frustrazioni inevitabili, riescono a trovare una condizione di tranquillità che consente ai genitori di gestirli con relativa facilità, migliorando in modo significativo il rapporto e l’atmosfera che si vive nell’ambiente familiare”.