
di Gianni Melilla*
Sono passati 80 anni dalla liberazione dell’Italia dal fascismo e dall’occupazione tedesca del
Nord Italia. Essendo figlio di un combattente della lotta di Liberazione, sono stato da sempre coinvolto emotivamente e, poi, anche politicamente verso la Storia di quei quasi due anni in cui la parte migliore della gioventù italiana prese le armi contro nazisti e fascisti oppure preferì essere internata nei campi di concentramento nazisti pur di non arruolarsi nella Repubblica Sociale di Mussolini.
La fine della guerra e dell’esperienza partigiana nell’aprile del 1945 sprigionò, come scrisse Italo Calvino, un’incontenibile volontà di rinnovare con “spavalda allegria” la nuova Italia con l’ambizione rivoluzionaria di “ricominciare da zero” dopo il buio di un ventennio liberticida dominato dalla corruzione, dal conformismo, dal razzismo e da varie guerre criminali. Il fascismo è stato praticamente sempre in guerra: dalla repressione della guerriglia in Libia alla fine degli anni ’20 e inizi anni ’30, all’aggressione dell’Etiopia nel 1935, alla partecipazione alla guerra civile in Spagna nel 1936 con l’invio di 60 mila miliziani italiani contro il legittimo governo repubblicano, all’annessione dell’Albania, all’ingresso nel 1939 nella Seconda guerra mondiale al fianco di Hitler con la vigliacca invasione della Francia e poi della Grecia, della Jugoslavia, dell’Unione Sovietica, con i sanguinosi fronti in Africa Orientale e in Libia, e nel Mediterraneo.
L’armistizio del settembre del 43 e la fuga vergognosa del re, del governo e dei vertici militari lasciarono allo sbando milioni di soldati, mentre le città italiane subivano bombardamenti devastanti, con migliaia di vittime civili. L’onore dell’Italia, in quello spartiacque drammatico, fu salvato dal coraggio di chi decise di combattere fascisti e nazisti rischiando tutto, a partire dalla propria vita, e anche da chi rifiutò di arruolarsi con i repubblichini fascisti ben sapendo che sarebbe stato deportato in un campo tedesco in regime di schiavitù senza la dignità e la relativa protezione riservata ai prigionieri militari. I partigiani affermarono, come disse il grande storico della Resistenza Claudio Pavone, una nuova “moralità”. Quella nuova “moralità” è stata la linfa vitale che ha animato poi la scelta del Popolo italiano nel referendum della Repubblica e l’approvazione della Costituzione da parte dell’Assemblea Costituente.
La nuova Italia è nata sulla base della spinta ideale dei partigiani che avevano diversi orientamenti politici con una comune visione convergente di grande rinnovamento politico, di partecipazione democratica, di onestà e moralità. Ma l’inveramento di quegli ideali nella coscienza e nelle istituzioni nazionali è stato purtroppo solo un’utopia. Lo spirito della Resistenza è stato svilito e nei fatti tradito dalla sostanziale continuità tra il regime fascista e la nuova Repubblica in particolare negli apparati dello Stato: dalla magistratura alle forze armate, dalle forze di polizia alla dirigenza statale. Non è cambiato molto nelle Istituzioni e ancora meno nei ceti economici dominanti. È stato vergognoso che la nuova Italia non abbia mai equiparato i partigiani ai militari.
Si è arrivato al paradosso che azioni di guerra dei partigiani in vari casi siano state denunciate come delitti comuni e come tali siano state giudicate da una magistratura sopravvissuta al fascismo, ma ancora in larga parte “dentro” la cultura liberticida fascista. Il grande giurista nonché partigiano Giuliano Vassalli ha scritto ripetutamente dell’“arma politica sleale” del
Codice Penale fascista utilizzato dalla magistratura per colpire nel Dopoguerra migliaia di partigiani e antifascisti e poi successivamente per reprimere le lotte sociali del dopoguerra, che raccoglievano l’ansia di giustizia sociale della Resistenza.
Fascisti, collaborazionisti della RSI di Mussolini, protagonisti di stragi e crimini nazifascisti nel
dopoguerra venivano assolti, riabilitati, graziati per “aver obbedito ad ordini militari superiori”, mentre per il Movimento Partigiano si aprì presto un processo politico con polemiche e attacchi di inaudita violenza arrivando in alcuni casi ad addebitare ai partigiani anche la responsabilità di rappresaglie nazifasciste come quella delle Fosse Ardeatine, seguita alla legittima azione di guerra di via Rasella a Roma. Centinaia di partigiani sono stati perseguitati per atti di guerra trasformati in delitti comuni. La stessa amnistia decisa dal governo e dal ministro Togliatti veniva applicata puntualmente per i fascisti e non sempre per i partigiani. È doveroso riflettere sulla irriconoscenza della Repubblica italiana per i partigiani italiani, su cui è stato steso un velo impietoso e ingiusto.
A distanza di 80 anni dalla Liberazione vorrei esprimere la gratitudine per quei giovani partigiani spesso ventenni che presero coraggiosamente le armi per combattere fascisti e nazisti, dando un contributo decisivo alla nascita di una nuova Italia, democratica e pacifica in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere e vivere. Questa gratitudine non conosce limiti temporali e per questo abbiamo il dovere di coltivare la memoria della “moralità” della Resistenza, che ancora oggi ispira una politica fondata sul diritto alla libertà, alla giustizia e alla pace.
*Segretario Fondazione Brigata Maiella