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La lettera/ Melilla sbaglia: il limite dei due mandati favorisce il ricambio generazionale

20 Gennaio 2025 da Redazione

Gentile direttore, interessanti spunti offre l’intervento del presidente emerito Gianni Melilla sul tema dei limiti di mandato ai sindaci e ai presidenti di regione (a proposito: smetteremo di cianciare chiamando impropriamente questi ultimi governatori?). 
Detto che c’è una svista (il limite vale per tutti i sindaci, non solo “i sindaci dei 100 comuni più grandi“, tranne, a seguito dell’innovazione legislativa del 2022, quelli dei comuni sotto i 5000 abitanti che hanno visto innalzato il limite a tre mandati a causa della difficoltà per i piccoli comuni di trovare candidati sindaci) e che condivido che la politica non s’improvvisi, provo a rispondere alla domanda di Melilla (“non capisco la ratio del limite di due mandati“) e provo a farlo rilanciando: e perché tre? Perché un limite?  

La ragione per la quale il legislatore ha imposto un limite di due mandati è spiegata così: a differenza delle altre cariche citate da Melilla, sindaci e presidenti di regione sono cariche monocratiche a elezione diretta. Pertanto qui, l’esercizio protratto nel tempo può distorcere il rapporto con gli elettori e creare “sultanati” (cit. G. Sartori) locali in grado di perpetuare il loro potere, condizionandone a loro favore la rielezione.

Nella tecnicalità istituzionale che connota la dottrina, i limiti di mandato svolgono infatti un ruolo nella prevenzione della corruzione dei politici e nel facilitare un buon funzionamento del sistema democratico, perché consentono di aumentare la competizione e la partecipazione elettorale soprattutto quando i sindaci e i presidenti di regione già in carica hanno un forte vantaggio elettorale dato dalla loro visibilità e dalle risorse elettorali a loro disposizione. 

Ma c’è un altro beneficio dei limiti di mandato, che di solito viene trascurato: quello di favorire il ricambio generazionale, aiutando ad accelerare l’accesso alla politica dei gruppi storicamente in minoranza, come le donne. Melilla poi si chiede perché allora anche altre e più alte cariche istituzionali non sono assoggettate ad analogo limite di mandati consecutivi. Il motivo è, quindi, presto detto. A partire dalla più alta, la presidenza della Repubblica che è anch’essa una carica monocratica (non così la presidenza del Consiglio dei ministri) le altre non sono elette direttamente dal corpo elettorale.

Negli Usa, per dire del caso estero più noto visto che il presidente Melilla cita il panorama internazionale, esiste per la presidenza della Repubblica (carica monocratica elettiva di fatto diretta) il limite due mandati consecutivi.

Melilla sostiene infine una tesi un po’ spericolata. Quella cioè secondo la quale i limiti servirebbero alla politica per permettere di – testuale – “sbarazzarsi di amministratori scomodi” e cita Zaia e De Luca. Singolare. Perché, se così fosse, significherebbe che la politica, per dirla come Melilla, potrebbe imporre il limite discrezionalmente a questa o quella elezione, laddove invece e al contrario, la “tagliola” è nella norma e ha validità erga omnes, scomodi o comodi che siano gli amministratori uscenti. 
Che poi, nello specifico dell’esempio riportato da Melilla e tratto dall’attualità del dibattito pubblico sul punto, per Zaia, di fatto, si tratterebbe di… quarto mandato. Un doge più che un presidente. 

Alla luce di quanto esposto, credo in definitiva che il presidente Melilla abbia operato concettualmente una sovrapposizione tra i detti limiti previsti dalla norma e quelli, volontari e autoimposti a seguito di legittima policy di partito, dei Cinque Stelle (“regola dei due mandati”), laddove il presidente fa esplicito riferimento a “uno non vale uno”. Altro tema questo tuttavia e che mi vede molto d’accordo. La politica non s’improvvisa. E’ attività che va svolta professionalmente. Con studio e preparazione. Nella speranza che, il cittadino elettore, scelga con altrettanta analisi nel parterre dei candidati. Ma questo è altro – grande – tema.  

Una provocazione, infine. E se invece dei limiti di mandato ragionassimo sull’aumento della durata degli stessi? Sicuri che i canonici cinque anni rappresentino il taglio più opportuno? Affinché, per dirla alla De Gasperi, i politici non pensino alle prossime elezioni ma si comportino da statisti e pensino alle prossime generazioni, non sarebbe il caso di innalzare la durata dei mandati consentendo agli amministratori di turno di implementare quelle politiche che, straordinariamente necessarie ma impopolari nell’immediato, necessitano di un arco temporale più lungo per consentire di osservare i risultati perseguiti? 

Ivano Pietrolungo, Azione Pescara

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