di Vittorio Ruggieri*
“L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, oramai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi. […] Quando i “vecchi” non serviranno più, che siano depressi o che ancora con abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene”.
Vent’anni fa, Lucien lsraël (1926-2017), uno dei pionieri dell’oncologia in Francia, al termine di una vita dedicata alla ricerca e alla pratica clinica dei tumori, coglieva il punto cruciale della questione: l’eutanasia non è soltanto una grave lesione della vita, è la chiusura di un cerchio.
Questo non credente, che è stato presidente dell’Accademia francese di Scienza morali e politiche e insignito della Legion d’Onore, indicava — con parole più attuali adesso di allora — l’epilogo del “suicidio demografico”, di cui Giovanni Paolo II aveva parlato per la prima volta nel 1985, quando aveva mostrato “la denatalità e la senescenza demografica (quale) involuzione [ ] fonte di forte preoccupazione, [ ] soprattutto perché, osservata in profondità, essa appare come il grave sintomo di una perdita di volontà di vita e di prospettive aperte sul futuro e ancor più di una profonda alienazione spirituale”. All’opzione del rifiuto delle nascite corrisponde l’incremento della popolazione anziana, col correlato carico di spese e di assistenza, non soltanto sanitaria: mascherata come diritto a morire con dignità, l’eutanasia assurge allora a strumento per rimettere a posto lo squilibrio generazionale, attraverso l’eliminazione di chi non produce ed è fonte di sprechi.
La corsa al ‘diritto di morire’ e al corrispondente ‘dovere di dare la morte’ conosce in Italia, negli ultimi anni, una singolare accelerazione, una sorta di gara fra chi arriva prima. Dopo le sentenze che hanno affrontato il caso di Eluana Englaro, in particolare quella, decisiva ai fini della conclusione della vicenda, della Sezione prima civile della Corte di Cassazione – 16 ottobre 2007 n. 21748 – sul piano legislativo il passaggio più significativo è coinciso con l’approvazione della Legge 22 dicembre 2017 n. 219, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. In coerenza con la pronuncia della Cassazione, la legge del 2017 ha confermato l’equiparazione della nutrizione e della idratazione artificiali ai trattamenti sanitari: essa ha quindi parificato cibo e acqua ai presidi medici, se assunti attraverso ausili, sì che una forma — anche temporanea — di disabilità in ordine alle modalità di sostentamento fisico è diventata causa di interruzione della somministrazione.
Parlando non già di dichiarazioni, bensì di disposizioni anticipate di trattamento, la Legge n. 219/ 2017 ha dato vincolatività alla volontà espressa dall’autore, ora per allora; pur trattate nel medesimo contesto del consenso informato, quelle “disposizioni” costituiscono qualcosa di radicalmente diverso da esso, e di fatto riconoscono un “diritto” al suicidio, non già la libertà di non essere curati. La nuova configurazione data al consenso informato ha seriamente incrinato il profilo della professione del medico: per il comma 6 dell’articolo 1 «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente», e così va «esente da responsabilità civile o penale», a riprova di una condotta in sé contraria alla legge, e scriminata solo dalla esecuzione di una volontà suicida. Le Legge non ha precisato che cosa accade se in un momento così distante da quando le disposizioni erano state redatte, il medico ritenga che il paziente sia adeguatamente curabile, né permette che il medico sollevi obiezione di coscienza: in contrasto con l’esperienza di tanti medici, ben sintetizzata da Lucien Israël: “questi testamenti biologici”sono opera di chi sta bene […] i rari malati che, spontaneamente, mi hanno chiesto di aiutarli a morire se le cose si fossero complicate non hanno rinnovato la loro richiesta nel momento in cui questa poteva essere soddisfatta”.
Nella Legge n. 219 / 2017, la disciplina riguardante i minori appare assai prossima a una sorta di eutanasia di non consenziente: essendo grande la varietà di situazioni che cadono sotto la generica qualifica di minore di 18 anni, che include l’adolescente, in qualche modo capace di intendere, e il neonato, il bambino di 6 anni e il giovane prossimo alla maggiore età, quel che è certo è colui che decide non è il paziente, e questo dilata ulteriormente gli arbitrii e le interpretazioni errate di una volontà comunque non matura. Intervenendo con più documenti nella fase di discussione della proposta poi divenuta legge, il Centro Studi Rosario Livatino aveva prospettato, quale prevedibile sviluppo normativo delle premesse poste dalle norme del 2017, l’affidamento della decisione a comitati etici, chiamati a stabilire il livello accettabile di qualità della vita degna di essere vissuta: è quello che in questo momento è diventato oggetto di discussione in Parlamento.
Tappa ulteriore è stato il percorso che ha condotto alla sentenza della Corte Costituzionale in tema di legittimità dell’art. 580 codice penale, nella parte relativa alle condotte di aiuto al suicidio. Il 23 ottobre 2018, la Consulta ha esaminato la questione sollevata da una ordinanza della Corte di Assise di Milano nel procedimento penale a carico dell’on. Marco Cappato, imputato per l’agevolazione del suicidio di Fabiano Antoniani — conosciuto come dj Fabo –, che il primo aveva aiutato a recarsi in Svizzera alla clinica Dignitas, dove è poi avvenuto il decesso. Con l’ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018, il Giudice delle leggi rinviava la decisione di circa un anno, fissando all’uopo l’udienza del 24 settembre 2019, ma nella sostanza anticipava il contenuto del dictum definitivo, poiché illustrava le ragioni della non conformità alla Costituzione della norma impugnata, e prospettava al Parlamento l’opportunità di un proprio intervento. All’invito della Corte è seguita l’inerzia di Camera e Senato, e alla scadenza fissata, nel settembre 2019, la prima ha pronunciato la sentenza n. 242, che ha sancito le condizioni di non punibilità per le condotte di ausilio al suicidio: chi aiuta altri a togliere la vita va esente da responsabilità se il medico valuta che il paziente «sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili», che esprima un valido consenso alla propria uccisione, e che vi sia stato il previo ricorso alle cure palliative, senza che abbiano sortito alcun effetto.
Nella staffetta verso la liberalizzazione del dare la morte corrono lungo corsie parallele il referendum c.d. per l’eutanasia legale, promosso da una serie di realtà associative, prima fra tutte l’Associazione Luca Coscioni, e il testo Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia, risultante dall’unificazione delle proposte di legge C. 2 d’iniziativa popolare, C. 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli, C.1418 Alessandro Pagano, C. 2982 Sportiello e C. 3101 Trizzino, in discussione alla Camera dei Deputati, relatore l’on Alfredo Bazoli.
Anzitutto, cominciamo a chiamare le cose col loro nome. In tal senso, il referendum è un tipico, e non isolato, esempio di “frode in etichetta”: viene denominato “per l’eutanasia legale”, ma in realtà, se approvato, renderebbe non punibile l’omicidio del consenziente, sanzionato dall’art. 579 codice penale. Evocare, come si è fatto e si fa, a sostegno del referendum le sofferenze intollerabili e le malattie inguaribili è fuori luogo: non c’entrano nulla, e se il quesito passasse conterebbe solo l’espressione del consenso, a prescindere dalle condizioni di salute della persona. In un ordinamento come il nostro in cui, con ragione, sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo, e le deroghe sono rigorosamente disciplinate — si pensi alla donazione di un rene fra vivi, l’approvazione del quesito costituirebbe la formalizzazione estrema della disponibilità della vita umana.
Vanno sgombrati non pochi equivoci anche sul Testo unico: dal dibattito svolto nelle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera, e in primis dalle parole del relatore onorevole Bazoli, si desume l’esistenza di un vincolo che graverebbe sul Parlamento a seguito della sentenza della Corte n. 242/ 2019, quanto ai contenuti della disciplina che esso dovrà stabilire in materia di fine vita. Su questo piano la chiarezza non è un optional: con quella pronuncia la Corte, pur fornendo alcune possibili indicazioni sui contenuti della Legge, non ha imposto alcun binario da cui non deragliare. Ammetterne l’esistenza farebbe ritenere realizzata una incrinatura dell’ordine istituzionale, poiché si converrebbe sul fatto che la Consulta ha il potere di fissare ex ante i contenuti di un atto legislativo.
La Corte Costituzionale, ovviamente, non ha questo potere, e le norme di legge sono l’esito di una valutazione di natura politica che, in quanto tale, deve essere compiuta da chi, ai sensi dell’art. 67 Cost., rappresenta il Popolo italiano. Ciò è sancito a chiare lettere dall’art. 28 della legge 11 marzo 1953 n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale): «Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». È vero che una robusta e consolidata corrente culturale e giurisprudenziale sostiene il contrario, ed è convinta che competa alla giurisdizione farsi eco dell’evoluzione sociale, secondo griglie ideologiche tese a creare la norma piuttosto che applicarla: ma intanto sarebbe interessante verificare quanta sia condivisa la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti con sentenze che sembrano preoccupare di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”. Sarebbe comunque paradossale se tale corrente antiparlamentare trovasse sponda e condivisione all’interno del Parlamento.
L’assenza di un vincolo così incombente, come vorrebbe il relatore del Testo Unico, è ben sottolineata dal fatto che con la sentenza n. 242/ 2019 la Consulta “ha dichiarato conforme al dettato costituzionale solo ed esclusivamente il tipo di comportamento serbato in occasione dell’uccisione di Fabiano Antoniani”, ma – con tutti i rilievi critici formulabili, e in concreto formulati, nei confronti di tale pronuncia – essa non ha in alcun modo legittimato il principio eutanasico e non ha legalizzato l’uccisione su richiesta o l’aiuto al suicidio. La conseguenza è che “spetta al Parlamento disegnare il rapporto costituzionalmente corretto tra i valori in campo, da un lato la vita, il primo dei diritti fondamentali e, da un altro lato, l’autonomia morale del soggetto che, in determinate situazioni, rinuncia alla morte” .
*Avvocato e coordinatore provincia di Chieti del Codacons Abruzzo