di Raffaele Bonanni*
«Molte nostre convinzioni e abitudini sono entrate in crisi nell’ultimo triennio perché attraversiamo una fase di grande criticità. Come accade ciclicamente nella storia, le difficoltà ci fanno superare le abitudini che possono ostacolare il progresso e ci permettono di vedere aspetti prima non considerati. La pandemia ci ha preso alla sprovvista, culturalmente disabituati a considerarla un’evenienza. Sono passati cento anni dall’ultima grande pandemia, la “Spagnola”, che ha ucciso più italiani della Prima guerra mondiale, ma nella nostra memoria quasi non ce n’è più traccia. La Sanità dovrà essere organizzata in gran parte per prevenire. evitando che gli interessi nell’organizzazione sanitaria prevalgano sul buon senso e sugli avanzamenti della scienza.
Possiamo usare le stesse considerazioni per le dinamiche che hanno riguardato i rischi di sicurezza e di autonomia, tuttora presenti, nell’organizzazione della fruizione civile e industriale dell’energia. L’invasione dell’Ucraina ci ha dato nuovi occhi per vedere meglio i rischi che abbiamo corso dando credito agli autocrati e alla loro capacità di infiltrarsi nelle maglie della democrazia. Finora non ci siamo nemmeno premurati di avere un Piano energetico nazionale che potesse prevedere i fabbisogni ravvicinati e a lungo termine, le variabili, i costi, le garanzie di collaborazione con partner affidabili, le tecnologie, la diversificazione delle fonti per raggiungere autosufficienza, l’incremento delle fonti pulite e rinnovabili. Anche in questo la società italiana si è abbandonata a scelte condizionate dalle pressioni provenienti dai più disparati ambienti: alcuni ideologiche, altre determinate da interessi non sempre trasparenti. Nel recente passato ci siamo consegnati a Putin, abbiamo rinunciato al nucleare che produce energia a costi molto più bassi delle fonti fossili e necessariamente da appaiare alle rinnovabili idroelettriche, fotovoltaiche, eoliche, per garantire continuità nella sicurezza di approvvigionamento per un Paese evoluto come il nostro e con una industria molto avanzata che dipende sensibilmente dai costi energetici per la competitività nei mercati internazionali.
Lo sgomento che abbiamo subìto dall’impennata dei costi del gas, generata dalle orchestrazioni putiniane, ci ha permesso di cambiare la fornitura russa con quella di altri partner. Ora il prezzo del gas volge al ribasso, nel paese finalmente c’è più concretezza e buon senso. Cosicché le infrastrutture come i termovalorizzatori, i rigassificatori e i piani di espansione del fotovoltaico, eolico, geotermico, accompagnate in futuro al nucleare o all’idrogeno potranno darci sicurezza, autonomia piena, costi accessibili.
La pandemia, la guerra, la strategia di energie autonome e pulite ci hanno svelato che l’unica via per progredire nello sviluppo civile ed economico è quella di investire nel capitale umano. Per ora in Italia, il tema della crescita e custodia del capitale umano non sembra che sia in cima ai pensieri. Lo dimostra l’imbarazzante e grande distanza tra le qualifiche richieste dal sistema produttivo nelle produzioni e nei servizi e la diffusa disoccupazione a causa della inefficienza del sistema di istruzione e formazione non ben collegati con le imprese. E c’è la perdita di molti giovani che preferiscono lavorare all’estero a ragione di offerte salariali molto più alte. Non è del tutto negativo che i nostri giovani si rechino all’estero a fare esperienza, purché ritornino.
Il nostro sistema dovrà prepararsi per essere più attraente e accogliente. È in atto una rivoluzione del digitale pervasiva in ogni attività umana, ma è noto che l’attenzione a questi nodi nelle programmazioni e negli ambienti dell’apprendimento non sono cambiati nemmeno con le enormi possibilità che ci offre il Pnrr. Credo che questo gap, per essere superato, dovrà poter contare su un’azione potente, almeno quanto sia quella dei cambiamenti in atto. Abbiamo una classe dirigente consapevole di dover guidare questa impresa che in larghissima parte influenzerà il nostro futuro?
Il freno imposto alla mobilità e l’esigenza di erogare servizi e di limitare il più possibile il totale blocco delle produzioni ha suggerito di ricorrere al lavoro agile, alla possibilità di lavorare a distanza dalle abitazioni dei lavoratori, che hanno così potuto garantire la continuità del loro impegno ma senza orari prestabiliti per il loro carico di lavoro. Queste situazioni inedite per lavoratori e imprese hanno cambiato fortemente l’idea di spazio e di tempo riguardo alle attività lavorative. Hanno sviluppato nuove prospettive positive di risparmio di tempo limitando lo stress, riducendo i costi per la mobilità e generando minori emissioni di CO2, con interessanti miglioramenti di produttività. È facile prevedere che nel futuro prossimo crescerà sensibilmente lo smart working, che pone nodi importanti da sciogliere nella contrattazione collettiva tra le parti sociali, come il passaggio inevitabile dalle ore attuali usate per misurare la quantità del lavoro ai fini della retribuzione mensile, ai sistemi di calcolo per carichi di lavoro affidati nella libertà di esercizio del proprio lavoro e dei criteri di premialità per la maggiore produttività che ne deriva.
Le tecnologie in grado di supportare il lavoro online le utilizziamo normalmente da una decina di anni. Si conferma anche in questa circostanza come l’umanità venga trascinata dalla ruota della storia nei suoi cambiamenti, soprattutto nei momenti di emergenza. Le abitudini che portano alla staticità non sono altro che la paura di affrontare le realtà nuove percepite come rischi. Ma solo le catastrofi ci imprimono la forza di superarle attraverso il nuovo che appena raggiunto ci apre prospettive molto più vantaggiose di quelle abbandonate. È dunque la teoria schumpeteriana (ex ministro delle Finanze della Repubblica austriaca) che ci ricorda che il passaggio dai criteri vecchi di produzione alle nuove. Il disagio legato al superamento delle vecchie tecnologie di cui abbiamo piena padronanza, con quelle nuove e le inedite modalità di funzionamento, tutto ciò che si perde viene superato da una maggiore produttività e da nuove opportunità.
Il punto critico su cui impegnarsi per estinguere i disagi e moltiplicare le opportunità attiene il tempo che impieghiamo nel passaggio dal vecchio al nuovo attraverso istruzione e formazione. Mai come in questo tempo, e grazie alla modernità, superando spazio e tempo con le nuove tecnologie, giovani anche delle realtà più periferiche, hanno occasioni formidabili per l’apprendimento, per prestare la loro opera, per costituire start up partendo dal proprio territorio e aperti al mondo. Anche la riduzione dell’orario di lavoro può diventare occasione di cambiamento. Per cogliere pienamente la forza di questa possibilità, occorre organizzarla e contrattarla collettivamente azienda per azienda. D’altronde solo con la maggiore produttività si riuscirà a garantire il medesimo salario ad orario ridotto. È anche da dire che l’orario ridotto dovrebbe essere produttivamente impiegato non solo per il riposo, ma anche per migliorare le abilità professionali dei lavoratori ai tempi della rivoluzione digitale. I governanti e le parti sociali dovrebbero rivoluzionare la scuola e la formazione, per aiutare i cittadini ad essere a loro agio in questo tempo di passaggio che apre tanti altri interessanti e importanti prospettive per l’umanità in cammino nella propria storia di ricerca costante del cambiamento nella modernità».
*Ex segretario generale della Cisl, presidente della Fondazione Spaventa