La recente qualificazione ai quarti di finale della Turchia a Euro 2024 ci dà lo spunto per guardare oltre la gioia del risultato e per ricordare che la libertà e la democrazia sono i beni più importanti, Questa è la storia di un campione turco. Anzi, è la storia di un turco sotto la dittatura di Erdogan. Pubblichiamo il capitolo dedicato ad Hakan Sukur del libro Il prezzo da pagare, per gentile concessione dell’autore Stefano Tamburini e dell’editore Il Foglio Letterario. Ogni ulteriore diritto di pubblicazione resta riservato.
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A un certo punto lo hanno staccato dai cartelloni celebrativi, lo hanno cancellato dagli almanacchi e dal sogno collettivo del Paese, vissuto per intere stagioni con tante maglie prestigiose ma soprattutto con la più amata, quella della sua Turchia. Ad Hakan Sukur – centravanti con un passato italiano nell’Inter, nel Parma e nel Torino – gli hanno mandato a dire che era un terrorista e lo hanno costretto a scappare, senza un soldo e senza gloria. Gli hanno cancellato la vita, gli hanno incarcerato il padre, confiscato appartamenti e conti in banca. Gli sono rimasti pochi spiccioli per tentare di ricominciare da capo negli Usa, come un emigrato di neanche 44 anni costretto a vivere nel peggiore degli incubi.
Oggi Sukur non cerca slalom nell’area avversaria, guida uno dei taxi di Uber, riceve chiamate su una app e corre da una parte all’altra di Washington per accompagnare clienti e dribblare una miseria che gli morde le caviglie molto peggio di quanto non facessero i tacchetti dei difensori avversari.
La sua colpa? Essere dalla parte politicamente sbagliata nel momento sbagliato, in un Paese in mano a Recep Tayyip Erdogan, dittatore mascherato da presidente, alle porte di un Occidente che quel dittatore deve onorare per poter mediare con i russi e, soprattutto, per far da argine alle ondate migratorie. Un despota al quale devono chiedere permesso per poter pensare di far entrare Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. E, peggio ancora, devono anche consegnargli degli oppositori curdi rifugiati in Svezia che non hanno mai fatto del male a nessuno ma che lui considera terroristi.
IL POTERE SEMINA TERRORE
Anche Sukur viene considerato un criminale, e questo senza neanche aver mai pronunciato un “no” a qualcosa. È bastato essere in qualche modo legato a un oppositore incolpato di un golpe non riuscito e la cui paternità non è neanche certa. In Turchia, Paese governato in base al terrore, basta e avanza. E pensare che Erdogan e l’“altro”, l’oppositore accusato di tutto, il predicatore Fethullah Gulen, un tempo erano amici. Ed erano anche gli invitati di punta al primo matrimonio di Hakan. Siamo sul Bosforo, è il 1994 e per l’occasione c’è anche la diretta tv. Non per Erdogan, che in quel momento è “solo” il sindaco di Istanbul ed è in prima fila con un’imbarazzante giacca di raso rossa a celebrare il matrimonio. Le telecamere sono lì per Hakan, già a 23 anni il calciatore più in vista del Paese, e per la sposa, Esra Elbirlik. Sembrava un grande amore ma il matrimonio non andrà oltre i quattro mesi. Lui troverà un altro amore, lei morirà insieme con altre 17.000 persone nel terremoto del 1999.
Non si spegnerà invece l’idillio fra i massimi esponenti del potere e questo calciatore che incarna il sogno di fare grande la Turchia. Nel 2000 uno dei punti più alti, quando la squadra di Hakan, il Galatasaray, a Copenaghen alza al cielo il primo e unico trofeo internazionale per una squadra turca. La vittoria nella finale della Coppa Uefa arriva ai rigori contro l’Arsenal; Sukur non fa gol ma ne ha fatti prima per arrivare fin lì. Così tanti da convincere l’allora patron dell’Inter, Massimo Moratti, a ingaggiarlo per l’anno successivo. Non brilla, appena quattro gol in 24 presenze, in una stagione disgraziata, cominciata con l’eliminazione in Champions da parte dell’Helsingborg e con l’esonero di Marcello Lippi con la squadra affidata a Marco Tardelli. Una di quelle annate dove non funziona niente. Ma Sukur lascia il segno in un derby. Suo il gol del vantaggio, dopo dieci minuti, grazie a un tocco spettacolare su assist di Seedorf. Finirà 2-2 ma ai tifosi nerazzurri quel gol resterà nel cuore al punto che anni dopo, tornando in visita ad Appiano Gentile, sia il tassista del viaggio di andata sia quello del viaggio di rientro non fanno che ricordarglielo.
L’ESPERIENZA IN ITALIA
Dopo l’Inter ci sarà il Parma e prima ancora del trionfo europeo del Galatasaray c’era già stata un’altra esperienza italiana al Torino. Per il resto solo un altro passaggio estero al Blackburn e poi ancora tanto Galatasaray, fino alla conclusione della carriera. Ma è la Nazionale la vera squadra di Hakan, quella che sembra avergli regalato la gloria eterna in un paese visceralmente legato al calcio. Sono 112 le presenze e 51 i gol, quasi uno ogni due partite. E c’è il Mondiale nippo-coreano del 2002 che lo porta a sfiorare il sogno dei sogni, quando la Turchia arriva in semifinale a sfidare il Brasile. È la partita più bella del Mondiale, azioni da gol in serie, da una parte e dall’altra. Una rete di Ronaldo al 49’ porta la sfida dalla parte dei più forti ma non la chiude e Sukur si vede respingere da Marcos il tiro che può valere i supplementari e forse molto altro. Resta la finale per il terzo posto con la Corea del Sud, Hakan segna il gol più veloce della storia dopo 10 secondi e 89 centesimi. Finirà 3-2 per i turchi e con un’accoglienza in patria che è la stessa che si sarebbe riservata a un ritorno con la coppa. La maglia numero 9 di Sukur è la più collezionata, la più amata. Quando Hakan si ritirerà gli saranno intitolati stadi, strade e centri sportivi.
Giocherà fino al 2008, nel 2011 si dà alla politica e viene eletto in Parlamento con il partito di Erdogan, l’Akp, grazie al legame con il predicatore Fethullah Gulen, in quella fase alleato e sostenitore del presidente-autocrate-dittatore. Ma a un certo punto qualcosa si rompe. Sukur si dimette da parlamentare il 16 dicembre 2013, poco prima dello scandalo che investirà il presidente, i figli e molti reggicoda accusati di corruzione. Hakan però rifiuta ogni collegamento, dice di essersene andato per la chiusura delle scuole di preparazione all’università sulle quali si sorreggeva l’impero economico dell’amico predicatore, nel frattempo entrato in rotta di collisione con Erdogan.
LE ELEZIONI E IL TENTATIVO BIS
Nel 2015 riprova la strada del Parlamento come indipendente legato ai gulenisti, ma resta fuori. E qui cominciano i guai. Nel 2016 viene accusato di aver partecipato a un fallito colpo di Stato organizzato dai seguaci di Fethullah Gülen. Cominciano le epurazioni, i mandati di cattura. Viene arrestato anche il padre dell’ex calciatore, Salmet, portato via in malo modo mentre prega in una moschea. Resterà a lungo il galera e sarà rilasciato per andare agli arresti domiciliari perché gravemente ammalato.
Sukur se n’era già andato dopo la mancata rielezione, perché aveva capito che non era più possibile vivere serenamente. A chi gli chiederà conto di quelle accuse risponderà sempre con fermezza: «Golpe? Quale sarebbe stato il mio ruolo? Nessuno è in grado di spiegarlo. Ho sempre fatto cose legali. Non sono un traditore o un terrorista. Sono un nemico del governo, ma non dello Stato o della nazione, amo il mio Paese».
E a chi gli chiedeva i perché della fuga, inizialmente in California, rispondeva così: «Ricevevo continuamente minacce dopo ogni dichiarazione in campagna elettorale. Hanno lanciato bombe nella boutique di mia moglie Beyda, i miei tre figli sono stati molestati per strada. Mio padre è stato incarcerato e tutti i beni sono stati confiscati».
Inizialmente ha provato ad aprire una caffetteria a Palo Alto con i pochi risparmi rimasti. Ma gli hanno subito reso la vita difficile: «Venivano persone strane al bar che suonavano la musica Dombra, quella che il partito di Erdogan definiva “la musica dei veri turchi”». Di fatto erano avvertimenti in stile mafioso.
Da qui la fuga a Washington, dove vende libri ma soprattutto guida uno dei taxi di Uber. «Ho sempre la speranza di tornare, ma adesso è impossibile». A Erdogan continua a mandare messaggi: «Ritorna alla democrazia, alla giustizia e ai diritti umani. Interessati dei problemi della gente. Diventa il presidente di cui la Turchia ha bisogno».
Hakan tira avanti con fatica e con molta dignità: «La mia situazione è difficilissima. Mi hanno tolto ogni cosa, la patria, il lavoro, quasi tutto ciò che ho guadagnato onestamente e che ho sempre investito in Turchia. Erdogan mi aveva chiesto di far parte del suo partito perché così avrebbe avuto più voti e poi, solo perché non condividevo le sue idee e la piega del governo, mi ha trasformato in nemico pubblico. Il mio patrimonio è stato confiscato, i miei familiari perseguitati e discriminati, mio padre arrestato. Adesso difendere i diritti umani è diventato un dovere morale, a prescindere dalla nazionalità e dalla religione delle persone coinvolte. Purtroppo chi in Turchia ha alzato la voce per la democrazia come me, ne paga le conseguenze».
ALTRI SPORTIVI NEL MIRINO
Il destino di Hakan è simile a quello di altri sportivi turchi nemici del presidente, come il cestista Enes Kanter, pivot in Nba con i Boston Celtics, o l’ex calciatore curdo Deniz Naki. Il cestista ha addirittura rinunciato alla nazionalità turca e cambiato cognome. Ora si chiama Freedom, libertà, vive negli Usa mentre il padre è in galera e i fratelli non possono lasciare il paese. Prima di diventare cittadino americano ha rinunciato a trasferte in Europa e in Canada per paura di essere arrestato su richiesta delle autorità turche.
Sukur non sembra correre questo rischio. Guida per Uber e fatica ad arrivare a fine mese, conta i soldi per mangiare due volte al giorno quando ne avrebbe così tanti da vivere da nababbo. Ha pagato un prezzo altissimo per lottare per i diritti umani in un Paese ai confini della civiltà occidentale con un Occidente fa finta di non vedere.
È una vergogna che si specchia negli occhi tristi di quell’uomo che stregava i tifosi e li faceva sognare. Oggi vive dentro un incubo, fiero e pronto a tutto, come quella volta che sfiorò il Mondiale per la sua Turchia. Il Paese che ama e che lui non può amare perché il despota che va a braccetto con l’Occidente ha deciso così. Siamo oltre “Le vite degli altri” dell’ex Germania Est, perché il mondo dei cosiddetti buoni sta a guardare. Silente e complice.