Mario Pomilio (Orsogna, 1921-Napoli ,1990) esordì come romanziere settant’anni fa con L’uccello nella cupola
Sono passati settant’anni da quando, nel 1954, Mario Pomilio, già instradato sulla via della critica letteraria, esordisce come narratore col romanzo L’uccello nella cupola. Il libro, pubblicato da Bompiani, vince in quello stesso anno il Premio Marzotto per l’opera prima e segna l’inizio di un cammino letterario che avrebbe conosciuto altre importanti tappe (La compromissione, 1965, Premio Campiello; Il quinto evangelio, 1975, Premio Napoli; Il Natale del 1833, 1983, Premio Strega) e che però poi, più o meno dopo il 1990, anno della morte dello scrittore, sarebbe stato annebbiato da una cortina di oblio purtroppo durevole.
La nebbia ha preso a dissiparsi solo intorno al 2015, vale a dire quando, per una serie di risorgenti interessi critici (in buona parte connessi al quarantennale della comparsa de Il quinto evangelio, ma variamente sollecitati negli anni precedenti), l’opera di Pomilio è tornata al centro di un’attenzione che è andata via via crescendo e che, da ultimo, ha vista pienamente riaffermata la grande levatura dello scrittore nell’ambito della letteratura italiana contemporanea.
Pomilio nacque a Orsogna (Chieti) nel 1921 e si spense a Napoli nel 1990. Napoli è stata la città che ha scelto come sua, benché si sia sempre sentito, come lui stesso disse e ripeté e come è stato osservato dalla critica, uno ‘sradicato’, cioè un uomo dall’anagrafe, per così dire, mossa e mobile, plurima (la Normale di Pisa, i soggiorni di studio in Francia e in Belgio), e all’interno del cui itinerario intellettuale la ‘geografia morale’ rivela cogenze ben maggiori di quella fisica (in questa ‘geografia morale’ rientra anche il suo europeismo, del quale fa emblema il racconto Il cimitero cinese).
Raffinato e concentratissimo come lo è ogni frutto del lavoro di Pomilio, L’uccello nella cupola è un romanzo che oggi inevitabilmente appare in parte segnato dai decenni trascorsi, ma è anche una specie di manifesto nella narrativa pomiliana, e specialmente di quella parte di essa più orientata a scandagliare la fede e la spiritualità.
Questi due ambiti, e naturalmente non solo questi, Pomilio ha reso aree tematiche della sua letteratura e lo ha fatto secondo la cifra che più gli era peculiare, cioè quella problematica, e questo spiega anche come mai i suoi personaggi (centralissimi nella sua narrativa) siano sempre testimonianze di un affanno, di una ricerca, di un’ansia, di un disarcionamento, di una crisi: testimonianze e non semplicemente testimoni, sebbene Il testimone sia il titolo di una sua opera tra le più stranamente neglette (il romanzo è uscito nel 1956).
Ma L’uccello nella cupola è anche il primo dei due romanzi ambientati a Teramo (l’altro sarà il successivo La compromissione) e, quindi, acquisisce una sua importanza anche per via del rilievo che nella produzione pomiliana riveste il concetto di provincia.
Ne è protagonista un prete che si trova improvvisamente catapultato a fare i conti con una situazione in breve tragica.
L’inquietudine, la solitudine, lo spavento per la sua sostanziale incapacità di tenere testa a una vicenda che lo cinge drammaticamente d’assedio, e che lo strema costringendolo a inseguire una qualche difesa attraverso alibi destinati comunque allo sgretolamento, lo vedranno essere, in un solo tempo, giudice e imputato dinanzi alla sua stessa coscienza.
La malattia, la sofferenza, la fede, il disamore, la grazia, la colpa, la disperazione di chi cerca di salvarsi dinanzi al suo stesso sguardo interrogante, sono alcuni degli elementi che strutturano la storia di un prete che si confronta con un’idea del male e con una smarrente pervasività della morte.
“Perché, pensava, ci sono degli istanti che bastano a decidere del nostro destino. E sono tanto pochi perché, nella tenebra che ci accerchia, la grazia non lampeggia che sotto forma di folgorazioni improvvise, dopo le quali, per chi non è riuscito a ritrovare il cammino, il buio si rifà più folto”.
Raccontata (come si vede) da un Pomilio stilisticamente denso e tornito, e decisamente distante, per tono e per impianto, dal clima neorealista del tempo, questa storia trova nel protagonista don Giacomo il “vero perno – come ha osservato Ermanno Paccagnini – cui Pomilio affida tutte le proprie personali interrogazioni sui temi fondanti del cristianesimo”.
L’uccello nella cupola è un romanzo che racconta l’angustia di sostenere emotivamente e intellettualmente un dibattito con sé stessi, quando si sia acquisita cognizione dell’irreversibilità di quegli atti e di quelle astensioni che i giorni subito storicizzano in quel che si è compiuto e in quel che non s’è salvato. Se è senza via d’uscita, questa prima di Pomilio è anche una storia di resa e di liberazione, cioè di affidamento e di dolorosa accettazione delle umane insufficienze.
Simone Gambacorta