*di Costantino Felice
La storia del passato sicuramente ci può illuminare sul presente e forse guidarci anche per le scelte future. Si tratta di comprendere le dinamiche sociali ed economiche che, insieme alle opzioni culturali e politiche, hanno portato alla realtà che oggi abbiamo sotto gli occhi. Si tratta, in altri termini, di dare fondamento culturale e storico alla compagine urbana del nostro tempo. Da questo punto di vista un momento di svolta decisivo è stato senz’altro la nascita della “nuova Pescara” (anche allora si diceva così) quale capoluogo della quarta provincia abruzzese.
La creazione della provincia di Pescara nel 1927 sanzionava sul piano politico e amministrativo una strutturazione economica e sociale che già di per sé era destinata a tale ruolo. In nessun’altra zona dell’Abruzzo – e forse tra pochissime altre nell’intero Mezzogiorno – si erano registrate dinamiche evolutive di pari spessore e incidenza. Se ne può avere un’idea considerando i dati che ci forniscono i censimenti sulla popolazione residente: dati che ci fanno comprendere l’andamento del più elementare degli indicatori statistici, quello demografico appunto. Nel primo ventennio del Novecento a Castellamare Adriatico la
popolazione cresce quasi dell’80%. È un incremento strepitoso. In nessun altro centro dell’Abruzzo si verifica qualcosa del genere.
Negli anni seguenti la crescita continua impetuosa. Lo stesso Giacomo Acerbo, in un articolo del 1926 sull’economia abruzzese, con riferimento al periodo 1901-25 riportava questi dati (non distanti per la verità da quelli ufficiali): 80% di incremento per Pescara e 100% per Castellamare. I due centri insieme superavano ormai ampiamente i 30.000 abitanti, pressappoco come gli altri capoluoghi abruzzesi, che erano però partiti molto più avanti. Già allora vi si concentravano non solo funzioni amministrative, commerciali e politiche, ma anche attività produttive, tanto agricole che industriali.
Nel decennio 1921-31 il numero di abitanti a Castellammare e Pescara insieme aumenta quasi del 70%. È vero che nel 1928 vengono aggregati il comune di Spoltore e una piccola frazione di San Giovanni Teatino; ma anche sottraendo i circa 6.000 residenti di queste due località, il dato del 1931 resta comunque molto alto, segnando una crescita di oltre il 46% rispetto al precedente censimento del 1921.
Naturalmente la elevazione di Pescara a capoluogo di provincia funge poi da ulteriore volano, come dimostrano gli incrementi, anch’essi eccezionali, delle successive rilevazioni: quasi 18% nel 1936 e oltre 26% nel 1951. Non parliamo poi di ciò che accade in seguito. Significativo resta però soprattutto il confronto con gli altri capoluoghi abruzzesi sulla base dei semplici trend demografici. Già nel primo ventennio del secolo il balzo in avanti di Pescara e Castellamare insieme (61,3%) svetta nettamente sugli altri (19,1% Chieti, 10
L’Aquila, 9,2 Teramo); ma lo scarto doveva farsi ancora più consistente nel successivo quindicennio. Tra il censimento del 1921 e quello del 1936 Pescara cresce infatti del 74,3% (da 26.073 a 45.445 residenti), Teramo del 23,9% (da 27.275 a 33.796), L’Aquila del 6,1% (da 48.204 a 51.160) e Chieti addirittura regredisce del 3,5% (da 31.381 a 30.266).
Ad eccezione di Roma (e Latina), nessun altro capoluogo italiano – ne avevano consapevolezza i pescaresi
stessi – registra allora un fenomeno di tale portata. Sarà anche vero che negli ambienti dominanti pescaresi – almeno in quelli maggiormente pervasi dai miti agresti del dannunzianesimo prima e da quelli (in parte conseguenti) del ruralismo fascista dopo – la cultura della industrializzazione stentava a farsi largo, ma indici di crescita così insolitamente elevati non erano certo ascrivibili solo allo sviluppo (che pure c’era) dell’agricoltura o del turismo balneare.
Come per alcuni altri centri del Mezzogiorno (Taranto, Brindisi, Ragusa), la designazione di Pescara a «città nuova» quale capoluogo della quarta provincia abruzzese nel 1927, sottraendo importanti territori alle altre tre preesistenti (soprattutto a quella di Teramo), era in realtà il risultato non tanto della volontà politica di D’Annunzio o di Acerbo, secondo una ricostruzione di maniera, prevalentemente agiografica e giornalistica, che soprattutto quest’ultimo tenterà a posteriori di accreditare, quanto piuttosto di una performance economica e sociale talmente sostenuta, come già detto, da imporre di per sé tale soluzione.
E questo al di là dei telegrammi tra Mussolini e D’Annunzio, o tra alti soggetti più o meno interessati, telegrammi propagandisticamente esibiti come trofei di successo personale. In occasione del quarantesimo anniversario della provincia pescarese Acerbo pubblicò su Il Tempo dal 4 al 17 novembre 1967 una serie di articoli, poi raccolti in opuscolo (Cronistoria della quarta provincia abruzzese e del suo capoluogo, l’unificata Pescara, Bardi, Pescara 1967), con i quali egli tornava a rivendicare, contro il «premeditato silenzio» dell’élite provinciale e cittadina (si tendeva a mettere l’accento sul ruolo di D’Annunzio e del medico
Domenico Tinozzi), «la parte predominante se non decisiva» da lui avuta in «quelle straordinarie innovazioni» e la sua «operosità nel successivo quindicennio». Era la solita versione superficiale e di facciata che veniva riproposta su presunti primati di protagonismo da parte di personaggi che in realtà avevano svolto funzioni del tutto marginali. Era la realtà storica del momento che di fatto si imponeva per quelle scelte. Si trattava, in altri termini, della legittimazione formale di un ruolo che di fatto la cittadina adriatica già svolgeva per i
mutamenti strutturali (anche del suo hinterland) che la collocavano alla guida – o comunque al vertice – dell’evoluzione regionale.
*Storico e scrittore
Due libri suggeriti sull’argomento, entrambi di Costantino Felice: Il Mezzogiorno operoso. Storia dell’industria in Abruzzo, Donzelli editore, Roma 2008; Il Mezzogiorno tra identità e storia. Catastrofi, retoriche, luoghi comuni, Donzelli editore, Roma 2017.